sabato 11 aprile 2020

Sabato Santo - Veglia Pasquale nella notte santa








7. È compiuto!



Dopo aver preso l’aceto,
Gesù disse: «è compiuto!».
E, reclinato il capo, consegnò lo Spirito.
(Gv 19, 30)

Secondo il quarto vangelo questa è l’ultima parola di Gesù prima della morte. Giovanni testimonia questa parola come una proclamazione autorevole e convinta, come un grido di vittoria che annuncia il definitivo compimento di tutta la vita e la missione di Gesù. 
Gesù fa una vera e propria proclamazione: ha portato a termine la sua vita umana sulla terra e la missione ricevuta dal Padre che lo donava al mondo; ha portato a compimento tutte le Scritture, vivendo l’amore all’estremo, fino alla fine.
Questo ultimo grido di Gesù non significa “è finita”, bensì “Tutto è stato compiuto, perché vi sia finalmente l’inizio della salvezza, l’inizio della vita che attraverso l’amore ha sconfitto la morte per sempre”. Lo scopo ultimo dell’agire di Dio, attraverso suo Figlio, è amare e mostrare il suo amore.
A questo punto, reclinando il capo come per riposarsi, essendo completata la sua opera, Gesù può consegnare lo s/Spirito, cioè il soffio-respiro ma anche il Soffio-Spirito santo. Questa morte di Gesù è l’epifania del suo amore più grande, perché è “dare la vita per gli amici”. È certamente anche lasciarsi consegnare, condannare, mettere a morte in croce; ma se questo avviene senza una risposta violenta al male ricevuto, se questa passione genera perdono e misericordia, allora l’amore vince sull’odio, sul male, sulla morte stessa. Epifania, culmine, pienezza dell’amore!
Ora veramente tutto si è compiuto per sempre. Gesù sulla croce è il Figlio di Dio pienamente rivelato.
Ora può giungere per Gesù la morte, che nel quarto vangelo è azione di un vivente che si addormenta per riposare poiché si dice “emise lo spirito”, come consegna, dono, effusione del suo Spirito su tutta l’umanità, su tutta la creazione. Lo Spirito, che da sempre era stato compagno inseparabile di Gesù, ora è da lui donato e comunicato all’intera umanità, si è effuso su tutto l’universo.
Ripensiamo a questa parola di Gesù: “è compiuto!”, tutto è compiuto. Solo lui ha potuto dirla, noi non possiamo, perché nella nostra esistenza non siamo in grado di portare a compimento ciò che, tutti al più, abbiamo iniziato. Solo il Signore può portare a termine l’opera in noi e per noi, solo lui! A noi, in verità, Dio non chiede di portare a compimento l’opera, di portarla a pieno compimento, ma solo di predisporre tutto perché lui possa operare. E una volta che abbiamo acconsentito alla sua azione, ci chiede di aspettare da lui ogni compimento. Tutto ciò è espresso splendidamente da un famoso detto della tradizione ebraica: “non spetta a te compiere l’opera, ma non sei libero di sottrartene”.
Le nostre vite saranno sempre incompiute, perché sono umane, eppure quando giunge l’ora della nostra morte non accettiamo questo limite e abbiamo il sentimento di dover ancora portare a termine qualcosa prima di lasciare questo mondo. Ma la parola “fine” dobbiamo lasciarla dire a Dio: il Dio che realizza in noi il volere e l’operare, il Dio che ha iniziato l’opera in noi, lui la porterà a compimento. Noi non portiamo a compimento né la vita, né la vocazione, né alcuna missione. Il Signore ci darà quella completezza che manca, colmerà con la pienezza dell’amore quanto noi abbiamo lasciato incompiuto.

venerdì 10 aprile 2020

Venerdì Santo - Celebrazione della Passione del Signore






6. Ho sete!


Gesù, sapendo che ormai tutto
stava compiendosi,
affinchè si compisse la Scrittura,
dice: «Ho sete».
Vi era là un vaso pieno di aceto.
Mettendo su una canna di issopo 
una spugna piena di aceto,
gliela avvicinarono alla bocca.
(G 19, 28-29)

Anche sulla croce Gesù è sempre cosciente e consapevole del cammino che sta facendo verso la morte. Non è stato trascinato alla morte, questa non è per lui né un destino né un caso, perché egli vuole realizzare ciò che gli chiede la sua coscienza, nella quale è eloquente la volontà del Padre. Ecco perché Giovanni ci sottolinea che Gesù “sa”.
Ha sete, la sete di un condannato, torturato, flagellato, crocifisso e in agonia. Gesù è stanco e spossato, la sua gola è secca: invoca da bere, chiede che si abbia pietà di lui, chiede un po’ d’acqua. 
Colui che a Cana aveva cambiato l’acqua in vino per le nozze messianiche, ora che le nozze sono celebrate sulla croce, riceve l’aceto! Al dono del suo amore inebriante come il vino è contrapposto l’odio, l’inimicizia acida come l’aceto.
La sete che Gesù ha in questo momento è una sete più profonda e più forte, è la sete di Dio: il credente è attirato da Dio, lo cerca e desidera la sua presenza e il suo amore. Anche questa è stata la sete di Gesù credente, fin dall’inizio della sua vita, sete di comunione con Dio, sete di vita per sempre, sete di portare a compimento la volontà di Dio, cioè sete di amore.
Questo vale per ciascuno di noi poiché tutti siamo assetati, e nella nostra sete di acqua dobbiamo saper leggere anche la sete per la vita e soprattutto la sete d’amore: abbiamo bisogna d’amore, di riceverlo e di darlo, perché, se non c’è l’amore, la nostra vita non trova senso e quindi in noi regna la morte.
Gesù diventa per noi fonte di acqua viva che zampilla. Colui che ha sete, disseta, dà acqua viva per la vita eterna, acqua che diventa presenza dello Spirito Santo, Spirito di vita e di amore.
Purtroppo, oggi sono moltissimi i desideri che ci abitano, desideri introdotti da una cultura in cui dominano gli idoli del denaro, del consumo, dell’opulenza. Non sappiamo più fare discernimento tra i desideri, perché siamo come inebetiti dalla possibilità di soddisfare qualsiasi desiderio, buono o cattivo, utile al bene comune o nocivo per gli altri. Ma il nostro desiderio autentico e urgente è quello dello Spirito Santo che è vita, amore, perdono delle nostre colpe. Se sapremo conformare le nostre seti alla sete di Gesù, provocheremo una Pentecoste, una discesa dello Spirito su tutta l’umanità.
Al termine della contemplazione di questa parola dobbiamo chiederci qual è la nostra sete, se davvero siamo abitati dal desiderio dell’amore, della vita autentica che è Gesù Cristo. La sete, questa esperienza di ardente attesa, di impaziente invocazione, di profondo bisogno, in ultima analisi può essere metafora solo dell’amore, la realtà più degna di essere accostata.

giovedì 9 aprile 2020

Giovedì Santo - Celebrazione Vespertina nella Cena del Signore






5. Donna, ecco tuo figlio…



Ora, presso la croce di Gesù
stavano sua madre,
la sorella di sua madre,
Maria di Cleopa
e Maria Maddalena.
Gesù dunque, vedendo la madre 
e il discepolo amato che stava là,
dice alla madre:
«Donna, ecco tuo figlio».
Poi dice al discepolo: «Ecco tua madre».
E da quell’ora il discepolo la accolse
Tra i suoi beni più preziosi.
(Gv 19, 25-27)

Quello di Giovanni è il vangelo della gloria, gloria dell’amore di Gesù, gloria di colui che “regna dal legno”. Questa è la “sua ora” che aveva annunciato. Sotto la sua croce avviene il raduno dei figli di Dio dispersi: tutti guardano a lui, il trafitto che porta a compimento l’opera di tutti i vangeli.
Dall’alto della croce Gesù con uno sguardo colmo di discernimento vede sua madre, le altre donne e il discepolo amato, amico e confidente, colui che nell’ultima cena aveva posato la testa sul suo grembo. 
Innanzitutto vede la madre, sua origine umana. Ella era presente a Cana, al suo primo miracolo pubblico, momento in cui Gesù stesso le aveva detto “non è ancora giunta la mia ora!”. Ora l’ora è arrivata, l’ora del passaggio di Gesù da questo mondo al Padre e la madre c’è ancora!
Accanto alla madre il discepolo amato. Sia la madre che il discepolo non sono chiamati per nome ma vengono qualificati dal loro rapporto vissuto con Gesù.
Il figlio di Dio ha ancora un compito, quello di mostrare la sua comunità ormai presente nella storia del mondo. Ma questa compagnia di uomini è come una “baracca” che sembra caduta e rovinata… chi lo ha abbandonato, chi tradito, chi rinnegato! Eppure Gesù, vedendo queste due presenze amorose e fedeli, non per fare un gesto di pietà filiale verso la madre o di affetto verso il discepolo, ma per fare un rivelazione, compie il segno: dichiara la nuova maternità e la nuova figliolanza. Gesù li vuole indicare come la sua comunità: Maria non è più sua madre ma madre di tutti i discepoli e in parallelo al discepolo affida la madre.
Così si è rivelato il volto della Chiesa, nella sua dinamica madre-figlio, in modo che ciascuno di noi senta la chiesa come madre e la chiesa senta ciascuno di noi come figlio, amico di Gesù. Questo il mistero profondo della vita della chiesa, una realtà fragilissima e facile da contraddire, perché non sempre il cristiano sa amare la chiesa. Non sempre è agevole vedere il volto materno della chiesa e non sempre la chiesa sa accogliere e amare come figli gli amici di Gesù, i suoi fratelli e le sue sorelle.
La chiesa che nasce dalla croce è una comunione reale e concreta, oltre i limiti naturali, e deve manifestarsi in un’accoglienza reciproca da parte di coloro che il Signore rende suoi discepoli.
L’ora è giunta, l’ora delle nozze di Cana si compie sulla croce! In questa ora la madre è presente e rivive le doglie del parto perché chiamata a diventare ancora madre, madre dei credenti, dei fratelli e delle sorelle di Gesù. Ma la sofferenza è mutata in gioia, la gioia pasquale, la gioia di chi crede alla resurrezione del Figlio suo e di Dio. Per questo la madre non sarà presente ad alcuna delle manifestazioni del Risorto, poiché lei è già credente sotto la croce! È la donna della fede, piena di speranza, donna di carità.
Ecco la nostra condizione: siamo sotto la croce con la madre e il discepolo amato, e siamo anche nel mondo, un mondo che a volte ci odia perché non ci conosce, ma un mondo che noi sappiamo tanto amato da Dio, al punto che Dio gli ha donato il proprio Figlio. 
Sotto la croce la madre di Gesù è come la terra benedetta che dà il suo frutto. È veramente “Terra del cielo”.

mercoledì 8 aprile 2020

4. Padre, nelle tue mani affido il mio spirito


Ed era già circa l’ora sesta
e si fece buio su tutta la terra
fino all’ora nona,
essendosi eclissato il sole;
il velo del tempio si squarciò nel mezzo.
E Gesù, esclamando a gran voce, disse:
«Padre, nelle tue mani affido il mio spirito».
Ora, detto questo, spirò.
(Lc 23, 44-46)

Sulla croce Gesù prega ed è ormai vicino alla morte. Si sente uomo fragile e mortale, umiliato dai nemici, schernito dagli avversari come uno scarto da buttare, calunniato e condotto alla morte, ma proprio di fronte a quest’ora vuole fare della morte che gli viene incontro un atto puntuale. Non vuole essere semplicemente preda della morte, subendola come un fato, ma, nella consapevolezza di aver ricevuto la vita da Dio, ora vuole restituirgliela e non viverla passivamente. Nessun eroismo, ma solo l’obbedienza alla fede. Gesù, con fede, chiama Dio come lo ha sempre chiamato nei giorni felici, “Padre”, perché ha la certezza di essere suo figlio amato, di essere da sempre ascoltato, quindi di non essere confuso o deluso, di non essere preda del non-senso. Gesù esprime la sua speranza: la morte non sarà l’ultima realtà perché da Dio gli attende la salvezza piena promessa al Messia. Egli si trova lì non per volere di Dio ma per decisione degli uomini che non sopportano chi è giusto e fa la volontà di Dio e lo opprimono fino ad ucciderlo. Passione e morte sono il passaggio per entrare nella gloria di Dio e per questo depone la sua vita nelle mani del Padre. Gesù non ha mai disperato e al Padre che fa silenzio risponde mettendo tra le sue mani il respiro che egli sta lasciando.
Questa è l’obbedienza di Gesù, la sua confessione di creatura fragile e mortale, la sua accettazione della morte ineludibile per ogni vivente, la sua piena fede in Dio che riceve nelle sue mani il suo soffio, la sua vita, e non la lascerà cadere nel nulla, nel vuoto. Restituisce al suo donatore questa sua vita “donata”, consumata dalla missione affidatagli da Dio stesso, quella vita nella quale ha amato fino all’estremo.
Questo il sacrificio autentico di Gesù: ha offerto puntualmente a Dio il proprio corpo quale sacrificio vivente, vero culto a Dio, liturgia secondo la Parola. In questa preghiera c’è l’”amen” alla vita e alla morte detto dal Figlio nella libertà, sigillo su un’esistenza che è stata un ininterrotto compiere la volontà di Dio: volontà che gli chiedeva di dare la vita per gli altri e di radunare i figli di Dio dispersi.
Dopo questa offerta. Gesù spirò. Se Gesù si è sentito abbandonato da Dio, si è però abbandonato tra le sue braccia, confidando che egli avrebbe accolto il suo soffio vitale. Così si è offerto al Padre e ha mostrato di aver speso la sua vita per tutti gli esseri umani, suoi fratelli e sorelle. Vivere, infatti, significa in primo luogo saper accogliere e ricevere la vita che ci è stata donata, che nessuno di noi può dare a sé stesso. Ma significa anche donarsi, consegnarsi, offrire sè stessi agli altri: questa è la vita in pienezza!
Di fronte alla morte di Gesù, noi suoi discepoli e discepole, chiamati a conformarci a lui nella vita e nella morte, dobbiamo interrogarci: saremo capaci di fare della nostra morte un atto, come lui ha fatto? Sapremo dire, come tanti fratelli e sorelle segnati dalla santità: “Signore ti ringrazio per avermi creato e ora nelle tue mani affido il mio respiro?” . Nessuno di noi sa come morirà, se nella pace o nelle sofferenze strazianti, se improvvisamente o al termine di una malattia, se nella pienezza della coscienza o in preda all’assopimento. La morte resta un terribile enigma, del quale molti hanno paura, grande paura. 
Ebbene, questa parola di Gesù ci insegna a far passare la morte da enigma a mistero, cioè a verità che si apre a noi e ci fornisce senso, dunque speranza e consolazione.
Il credente, in ogni caso, può credere che nella morte non sarà solo, che troverà Gesù, il quale lo ha preceduto in quel “passaggio”: lo troverà al di là della morte, quando il soffio consegnato al Padre sarà convertito, cambiato in Spirito, il santo Soffio che è via eterna, che è amore capace di vincere la morte.

martedì 7 aprile 2020

3. Oggi con me sarai nel Paradiso


Ora, uno dei malfattori appesi alla croce
bestemmiava Gesù dicendo:
«Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!».
Ma l’altro, rispondendo,
lo rimproverava dicendo:
«non hai alcun timore di Dio,
pur subendo la stessa condanna?
Noi, giustamente,
perché riceviamo il dovuto
per ciò che abbiamo fatto;
ma costui non ha fatto nulla di male».
Poi disse: «Gesù, ricordati di me 
Quando entretai nel tuo Regno».
E gli disse: «Amen, dico a te: 
oggi con me sarai nel paradiso».

(Lc 23, 39-43)

Accanto a Gesù sono stati crocifissi due delinquenti e questa è la piena realizzazione di quanto aveva annunciato la Scrittura. Anche nel momento della morte Gesù è in compagnia di peccatori, come lo è sempre stato durante la vita. Proprio con chi ha peccato, fino alla fine, Gesù mostra solidarietà. Come ha vissuto, così muore. 
Non ci sono i suoi apostoli, ma ci sono due peccatori.
Ma questi due uomini sono diversi tra loro; uno bestemmia Gesù e si unisce al disprezzo della folla nei suoi confronti, arrivando addirittura a tentarlo, chiedendogli di scendere dalla croce. Costui pensa che un Messia che muore in croce non sa salvare sé stesso, figuriamoci gli altri. Costui rappresenta coloro che scelgono la violenza per raggiungere i propri scopi, e tutti quelli che hanno la pretesa di fare il bene senza chiedersi se lo fanno con lo stile di Gesù. 
L’altro malfattore invece, con il quale ci piace identificarci, rimprovera il primo e rinuncia a giustificarsi perché ha compreso il proprio fallimento. Alla vista di Gesù, il giusto ingiustamente crocifisso, il re, ma re umilissimo, lo invoca con parole tipiche della preghiera ebraica: “ricordati di me …”. Si rivolge a Gesù con semplicità e intimità sorprendenti.
Gesù gli risponde con un tono solenne e così compie la sua vocazione: era venuto per i malati e non per i sani, per i peccatori e non per i giusti, e ora accoglie con sé questo malfattore nel suo Regno.
Il dato più straordinario è che gli assicura che già “oggi”, la sua vita si compirà con Cristo in paradiso, nell’eternità. Questa la comunione con Cristo, essere nella sua gloria. Questo “oggi” è l’oggi di Dio, è l’oggi della salvezza, l’oggi per ognuno di noi, oggi nel quale Lui ci parla e ci ammonisce a non indurire il cuore.
Il malfattore ha ottenuto il suo “oggi”, la sua amicizia con Gesù che non finisce mai. Ha ottenuto il paradiso senza alcun merito. 
Perfino i discepoli non sono all’altezza della fede di questo malfattore poiché dopo la Sua morte saranno tristi e abbattuti, senza speranze. Il malfattore, invece, pur essendo molto lontano da Gesù si fa a Lui vicinissimo. 
I poveri erano stati indicati come i primi destinatari del Vangelo, ora è un peccatore il primo inquilino del paradiso.
Anche per noi, oggi, nella sofferenza e di fronte alla morte ci sono due possibilità: indurirci, diventando cinici fino al sarcasmo; oppure intenerirci, diventando capaci di comunione con gli altri, esercitandoci nel credere all’amore, nel dare e nel ricevere amore.
Questa parola di Gesù ci fa sperare, sperare per noi stessi e sperare per tutti: nessuno, per quanto sia stato malvagio, se riconosce l’amore può essere escluso dalla vita oltre la morte. Per ciascuno la morte può essere un nuovo inizio.


lunedì 6 aprile 2020

La Settimana Santa vissuta in famiglia





2. Padre perdona loro...




Quando giunsero sul luogo chiamato Cranio, 
vi crocifissero lui e i malfattori, 
uno a destra e l’altro a sinistra. 
Gesù diceva: 
“Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno”.
(Lc 23, 33-34)

Anche sulla croce Gesù chiama Dio con il nome di Padre riconoscendosi Figlio, il Figlio di Dio che ama e ama ancora, fino alla fine. Di quella sofferenza e di quella morte ormai vicina Gesù non incolpa gli altri, quelli che lo hanno crocifisso, le autorità religiose, i soldati romani o la folla che ha urlato “crocifiggilo!” e lo ha seguito fino al luogo del supplizio senza opporsi. Di fronte a questa violenza fisica e psicologica ingiustamente subita, Gesù resta in silenzio, un silenzio rotto solo dalla preghiera.
Chiama il “Padre”, come ha insegnato ai suoi discepoli, e gli chiede il perdono per gli esseri umani che non sanno quello che fanno e per questo motivo, possono essere perdonati. Gesù non dà egli stesso il perdono ma intercede per i suoi aguzzini e non emette condanna sugli esecutori della sua morte, come farebbe, forse, chiunque.
Tuttavia, Gesù non giustifica il male e la violenza, ma su di essi chiede il perdono che può interrompere questo dannoso circolo. Rinuncia alla vendetta nei confronti dei suoi esecutori e mostra di amare l’umanità fino alla morte. Gesù prega per loro, prega per noi che l’abbiamo crocifisso senza sapere ciò che facevamo.
Gesù si decentra e ci spiega la misericordia di Dio con la paradossale autorevolezza di chi è in croce, condannato e sbeffeggiato. È lui per primo a mostrare che cosa significhi amare i propri nemici, fare del bene a coloro che ti odiano, benedire coloro che ti maledicono e pregare per quelli che ti trattano male. Egli non giudica, non colpevolizza, non maledice e grazie alla sua intercessione Dio offre il perdono. Gesù intercede per noi, inter-cede, fa un passo tra e quindi si assume la responsabilità davanti a Dio. È intercessore credibile, affidabile, che con le braccia spalancate si rivolge al Padre e invoca misericordia per tutti gli uomini, a cominciare dai suoi persecutori e nemici.
Ma la questione delicata, oggi, riguarda tutti noi. Noi sappiamo vivere così, invocando il perdono su quelli che ci fanno del male e sono la causa della nostra sofferenza? Sappiamo pregare così quando perdonare è per noi difficile, inimmaginabile, impossibile? Occorre sincerità: il peccatore, il malfattore non è mai amabile quando lo conosciamo da vicino, e il male da lui commesso può sembrare imperdonabile e spingerci a chiedere una giustizia senza misericordia. Ma noi cristiani dovremmo imparare a comportarci come Gesù davanti a quelle autorità religiose e politiche che sicuramente non erano amabili con lui. Il perdono di Dio non va guadagnato ma accolto, perché sempre ci attende e ci precede.
Nel nostro quotidiano dobbiamo pensare che il grande nemico non è solo il persecutore, il calunniatore: nelle nostre famiglie siamo solcati da inimicizie, soffocati da mali che abbiamo compiuto o ricevuto, schiacciati da sensi di colpa che pesano come macigni ... Ebbene, ricordandoci di questa parola di Gesù, possiamo compiere un gesto semplice ed essenziale, che è la vera celebrazione della misericordia: chiedere al Signore il perdono per tutti e per ciascuno. Non sempre siamo in grado di perdonare, e il cammino per raggiungere tale capacità è lungo e faticoso, ci richiede di rimettere a Dio le nostre collere, le nostre durezze e le nostre paralisi. Lasciamo dunque al Padre di compiere ciò che per noi è impossibile e confidiamo che egli agirà sempre e solo nell’amore.

domenica 5 aprile 2020

1. Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?


E venuta l’ora sesta, 
si fece buio su tuta la terra fino all’ora nona. 
E all’ora nona Gesù gridò a gran voce: 
“Eloì, Eloì, lemà sabachtàni?”,
che significa: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. 
(Mc 15,33-34; cfr. Mt 27,44-46)

Lamento gridato da un giusto perseguitato, gridato nella tenebra e nell’oscurità. Un’oscurità che dura per tre ore, un tempo senza luce in cui Gesù è sospeso nel vuoto. Dio che aveva fatto sentire la sua voce (al battesimo e nell’ora della Trasfigurazione), ora tace. È più assente che mai, invisibile. Gesù si sente solo perché la sofferenza gli impedisce di sentire vicino il Padre.

Morte di chi viene condannato e scomunicato, ritenuto un bestemmiatore dalle autorità. Messo a morte sulla croce tra il cielo e la terra per dire come né il cielo, né la terra lo volevano.
Davanti a questo Gesù chiede “perché?”. Domanda che spesso popola il cuore degli esseri umani che si chiedono il perché del male, del dolore, della sofferenza nel mondo. Gesù era stato abbandonato da tempo: abbandonato dai famigliari all’inizio del suo ministero, abbandonato dai tre discepoli che non erano riusciti a pregare con lui nell’orto degli ulivi, abbandonato dai dodici sotto la croce, abbandonato dalla folla durante il processo, ora si sente abbandonato anche da Dio. Gesù vive questa assenza del suo Dio, vive il sentirsi trattato come un peccatore. Appeso alla croce appare come un maledetto da Dio e dagli uomini. Nudo a mezz’aria, indegno della compagnia degli uomini e della presenza di Dio. Ma, neanche in questa situazione di estrema lontananza da Dio, egli non abbandona Dio che invece invoca a gran voce.

Qui sta lo scandalo della croce per ciascuno di noi. Ma Gesù non muore per una cattiveria o un desiderio perverso del Padre ma, piuttosto, perché era il giusto in un mondo ingiusto che non è tollerato, dà fastidio e quindi va perseguitato e ucciso.
Il grido di Gesù è, allora, una richiesta di motivazione davanti a tanta sofferenza cercando di capire a cosa potrà portare la passione e la morte di un giusto perseguitato. Questo grido interroga direttamente Dio chiedendogli conto del suo silenzio. Come può Dio permettere questo? Perché non interviene? Perché resta muto? Ma, attraversando questa tenebra, si scoprirà che Dio resta accanto all’uomo e che, in Gesù, ha sofferto con ogni essere umano.

Se ognuno di noi si ponesse questa straziante domanda, scoprirebbe alla fine che Egli è rimasto sempre accanto a noi. Il Signore non ci toglierà il calice, non allontanerà le sofferenze, il non-senso: non perchè non vuole, perché non può! Manderà però una parola capace di interpretare il nostro dolore, di dargli un senso e un nome. Manderà il suo Spirito Santo come sostegno, forza e consolazione. Il credente che è rimasto tale anche nella sofferenza potrà affermare che l’amore di Dio è sempre fedele.
Così Gesù raggiunge tutte le nostre solitudini e i nostri abbandoni, conosce i nostri abissi di oscurità e gli inferni che ci abitano, diventando partecipe in tutto della nostra condizione umana, non solo fisicamente, ma anche psichicamente e spiritualmente. Gesù in croce raggiunge l’estrema povertà, l’ultimo posto che non potrà mai essergli rapito, e in tal modo ci precede sempre, anche nella discesa terribile del desolante abbandono da parte di tutti.
Dio, allora, non chiede sempre di cantarlo gioiosamente anche quando fa silenzio ma, solo di continuare a cercarlo e invocarlo. La domanda che ci deve abitare è: è Dio che fa silenzio sono io che non so ascoltare? È Lui il muto o sono io il sordo?
Nella fede Dio ci lascia entrare nella morte ma non ci abbandona, perché ci attende al di là della morte con le braccia aperte.

Le ultime parole di Gesù sulla croce



Sette parole furono pronunziate da Nostro Signore durante la sua passione in croce. Esse sono linfa vitale per tutti noi ... Parlò francamente, per amor nostro, a nostro vantaggio e per nostra salvezza. Ogni parola ebbe il suo effetto ... le sue furono parole di benedizone e di grazia. Fu un momento di benedizione, degno d’ogni beatitudine ... sulla croce non condannò alcuno, non punì alcuno, malgrado tutti i suoi dolori. Egli non venne a condannare, ma a salvare il mondo.
(Sheruda III, patriarca di Alessandri d’Egitto)


Il mistero della passione di Gesù Cristo è il cuore della fede cristiana e, dunque, ad esso bisogna ritornare sempre per ritrovare il senso del nostro credere. La lettura dei quattro testi evangelici della passione ci consegna il ricordo delle ultime parole pronunciate da Gesù in un momento così tragico. Queste parole, o brevi frasi, sono state fonte di grande devozione e spunto per esercizi spirituali di preghiera.

Sette parole, come le sette luci della menorah, il candelabro che bruciava nel tempio e che con le sue sette lampade rappresentava lo sguardo di Dio su tutto il mondo. Così Gesù osserva dalla croce fissando il male negli occhi e chiamandolo per nome: sete, tenebra, abbandono. Con queste parole Gesù ci consegna il messaggio di Dio, il messaggio della croce che appare folle e scandaloso per gli intellettuali ma porta della salvezza per i credenti. Sette parole come i sette giorni della settimana Santa che ci apprestiamo a vivere e che ci chiedono, oggi più che mai, di rivolgerci al vero mistero che la Pasqua dischiude, cercando nel nostro intimo di sentire la voce di chi, ancora inchiodato alla croce, urla per farsi sentire anche da noi.

Quando Gesù morì sulla croce “si fece buio su tutta la terra”. La tenebra vince la luce e l’intera creazione sembra accompagnare l’agonia di Gesù da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio. Mentre Gesù è agonizzante sulla croce, molte parole salgono verso di lui: non una parola di consolazione, non una parola di saluto, non una parola buona per un morente. Al contrario, egli viene deriso, bestemmiato, schernito, insultato e perfino tentato. Proprio a queste parole Gesù risponde con frasi brevissime dirette al Padre o alla sua comunità incarnata, sotto la croce, dalla Madre e dal discepolo da lui amato. Parole suggellate dall’alto grido emesso da Cristo prima di spirare, un grido di dolore, fatica e preghiera ma non di disperazione. Con questo grido Gesù dà voce alle grida di tutti gli esseri umani che si rivolgono al Padre: ogni grido, nel suo grido!

Un grido che percorre tutta la terra e che vuole dire la comunione con Dio. Un grido che travolge tutti, perfino un centurione che allora afferma: “Veramente quest’uomo era Figlio di Dio”.

Le parole di Gesù sono atto preciso che dicono il voler rendere a Dio il dono della vita ricevuta.

5 aprile 2020 - ComUnità n.30 anno VII