giovedì 28 marzo 2019

Introduzione alla Liturgia della Parola di domenica 31 marzo 2019



La IV domenica di Quaresima è tradizionalmente chiamata, nel rito ambrosiano, «la domenica del cieco nato», a partire dal miracolo (o, meglio, dal «segno»), narrato nel Vangelo di questa domenica.

Vangelo: Gv 9,1-38b
Introdotto da un dibattito sul peccato e dalla guarigione del cieco, il racconto evangelico si sviluppa con quattro dialoghi: l'interrogatorio del cieco da parte della folla e dei farisei; poi, l’interrogatorio dei suoi genitori da parte dei giudei; di nuovo, l’interrogatorio del cieco. Il tutto si conclude con un incontro del cieco con Gesù e un giudizio di Gesù: Gesù, luce del mondo, è venuto a dare la vista ai cie­chi e a convincere di cecità chi crede di vedere.
«Sono luce del mondo»,proclama, dunque, Gesù. 
Si dice spesso che la fede è cieca. In realtà, quando si dice questo, la si confonde con la creduloneria, equamente diffusa tra chi crede e chi non crede. 
La fede cristiana, invece, è essenzialmente un «vedere». Per Gesù, infatti, l'uomo assomiglia a un cieco dalla nascita: i suoi occhi, più che finestre sull'altro, sono specchi che riflettono i propri fantasmi. Abbiamo perciò bisogno di essere illuminati!
Il brano ci fa ripercorrere il graduale cammino di illuminazione dell’uomo cieco, con le sue difficoltà e i suoi contrasti, proprio perché, liberati dall'inganno, possiamo giungere alla verità che ci fa vivere.

La domanda, che ci possiamo rivolgere, è abbastanza semplice: nel racconto, noi dobbiamo identificarci con qualcuno dei vari personaggi. Ci identifichiamo con il cie­co, accettando la nostra cecità e aprendoci all’incontro con Gesù, per fare la sua stessa esperienza di luce? Oppure siamo tra quelli che presumono di vedere bene e proprio per questo - per questa presunzione - restano ciechi? E che cosa, in noi, fa più resistenza alla luce e alla verità di Gesù? 

A partire dalla proclamazione di Gesù, luce del mondo, e dalla sua guarigione dei nostri occhi, possiamo leggere anche le altre due letture.



I lettura: Es 17,1-11
Nella prima lettura, tratta dal libro dell’Esodo, incontriamo il popolo di Israele che attraversa il deserto. 
In un cammino nel deserto, il problema principale è dato, ovviamente, dalla mancanza di acqua. Israele, allora, accusa Mosè. Ma l’accusa nei confronti di Mosè è, implicitamente, una accusa nei confronti di Dio. Israele, insomma, chie­de conto a Dio del suo agire, lo accusa di una volontà non salvifica nei suoi confronti. 
Ecco che cosa significa realmente il «mormorare» del popolo. Nella mormorazione Dio è ritenuto colpevole. La mormorazione è il dubbio sulla presen­za di Dio, sulla sua capacità di agire e di salvare. È una messa in discussione di Dio e del suo agire nella storia. 

Dopo il problema dell’acqua, Israele deve affrontare un’altra prova: deve fronteggiare un attacco militare. La via d’uscita di Mosè nel superare questa seconda prova sta nella preghiera. Le sue mani oranti, tese sino al tramonto del sole, incarnano la sua fiducia in Dio, che è l’esatto contrario della mormorazione del popolo dell’episodio precedente.

La domanda per noi è, allora, un po’ scontata: viviamo nella mormorazione o nella preghiera?C'è una grande diversità tra la mormorazione e la preghiera, anche se ambedue iniziano da una stessa situazione di bisogno. 
La preghiera suppone un atteggia­mento di fiducia nell'intervento di Dio. La mormorazione suppone, al contrario, la sfiducia nei confronti di Dio. La preghiera significa avere occhi guariti e luminosi; la mormorazione significa restare nelle tenebre!

II lettura: 1Ts 5,1-11
Nella seconda lettura, tratta dalla prima lettera ai cristiani di Tessalonica, Paolo ci pone davanti lo sguardo sul futuro.
Le attese, che noi abbiamo sul futuro, sono sempre accompagnate da oscurità. Ebbene, con le parole di questo brano, Paolo vuol fare del cristiano un uomo saggio. Il cristiano, infatti, non è colui che perde tempo a discutere sul giorno e sull'ora, in cui verrà Gesù; ma è co­lui che vive vigilando. Una certezza guida la sua vita e determina la sua condotta:il Signore verrà.
Paolo spiega, allora, che viviamo davvero nella vigilanza e nell’attesa di quell’incontro con Gesù, se vigiliamo nella sobrietà.La sobrietà è il controllo di se stessi, per non perde­re di vista il fine. 
Infine, le due immagini militari dellaco­razzaedell'elmocercano di sottolineare come una simile condotta di vita non sia senza lotta o difficoltà, senzafaticaepazienza.

L’esortazione di Paolo diventa allora preghiera: «Rendici, Signore Gesù, davvero figli della luceedel giorno. Guarisci anche i nostri occhi, così che non restiamo ciechi, ma impariamo a vedere bene nella vita e nella storia; e possiamo conoscere e ricordare sempre la meta del nostro pellegrinaggio sulla ter­ra: l’incontro con te. 

E così sia!

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